La malattia o morbo di Parkinson fa parte delle patologie neurodegenerative e, in maniera lenta ma progressiva, altera il controllo dei movimenti volontari. Tra i sintomi più frequenti, si ricordano la bradicinesia, vale a dire il rallentamento nell’esecuzione dei movimenti, con fatica ad iniziarli e portarli a termine o a cambiare direzione durante il cammino, tremore a riposo, rigidità muscolare, instabilità posturale con perdita dell’equilibrio, amimia, che consiste nell’inespressività del viso. La sintomatologia può comprendere altri fastidi legati al malfunzionamento del sistema nervoso autonomo, come incontinenza urinaria, stipsi, disfagia, che è la difficoltà a deglutire, scialorrea, cioè salivazione abbondante. Il paziente può essere affetto anche da disturbi del sonno e sviluppare forme di depressione o di ansia e, soprattutto nelle fasi avanzate e nell’anziano, andare incontro a deficit cognitivi.
La patologia può insorgere senza una causa scatenante o essere la conseguenza di un ictus, di un’encefalite di origine virale o di altri danni provocati per esempio da farmaci a carico di una popolazione di neuroni, definiti dopaminergici nigrostriatali. Si tratta di cellule del tessuto nervoso che hanno origine e terminano a livello di strutture cerebrali rispettivamente chiamate substantia nigra e corpo striato. Il neurotrasmettitore coinvolto è la dopamina, una molecola in grado di veicolare informazioni tra i neuroni, carente nella malattia di Parkinson. L’esposizione ad alcune sostanze tossiche, tra cui certi pesticidi, solventi e metalli pesanti, può predisporre allo sviluppo del Parkinson. La patologia è presente in tutte le etnie, in ambo i sessi e solitamente l’esordio si verifica attorno ai 60 anni. Più rari sono i casi di Parkinson giovanile, che si manifesta tra i 20 e i 50 anni.
La terapia di elezione si basa sulla somministrazione di levodopa, un precursore della dopamina, in associazione con inibitori dell’enzima che altrimenti distruggerebbe la molecola prima di raggiungere il sistema nervoso centrale. Inibitori enzimatici come la carbidopa permettono inoltre di diminuire la dose di levodopa e minimizzarne gli effetti indesiderati a livello periferico. La levodopa migliora soprattutto rigidità e ipocinesia, ma sui lunghi periodi la sua efficacia diminuisce. Un altro farmaco utilizzato è la selegilina, che inibisce altri enzimi che degradano la dopamina. La bromocriptina, insieme a lisuride, pergolide, ropinirolo, cabergolina e pramipexolo, fa parte dei farmaci agonisti dei recettori dopaminergici, molecole che si legano ai recettori per la dopamina, mimandone gli effetti. Si citano infine l’amantadina, che induce il rilascio di dopamina, e l’atropina e i suoi analoghi, oggi impiegati molto raramente, sia perché si hanno a disposizione farmaci più efficaci che per gli effetti collaterali che accompagnano la loro assunzione.