Premesso che una perdita delle capacità cognitive in età avanzata è del tutto fisiologica, la malattia o morbo di Alzheimer, in passato definita come “demenza presenile”, è oggi considerata la principale causa di demenza progressivamente invalidante, indipendentemente dall’età di insorgenza della malattia. Le altre forme di demenza sono dovute per lo più a problematiche vascolari, associate ad ictus ischemico, oppure a traumi cerebrali o abuso di alcol. Fino a una trentina di anni fa si riteneva che la demenza legata all’età fosse una conseguenza della perdita costante di neuroni che avviene nel corso della vita; oggi si prendono maggiormente in considerazione meccanismi genetici e molecolari. Nella malattia di Alzheimer si osserva atrofia del tessuto cerebrale, con morte neuronale, alla base del deficit cognitivo e dei problemi di memoria a breve termine. Le cosiddette placche amiloidi e gli aggregati neurofibrillari sono depositi di proteine malripiegate nel cervello e la loro formazione predispone allo sviluppo del morbo di Alzheimer, con comparsa della sintomatologia anche dopo parecchi anni. Insieme a questi aggregati proteici, nella patogenesi della malattia sono implicate modificazioni a livello di alcuni sistemi di neurotrasmissione.
Uno dei segni più comuni dell’Alzheimer è la perdita di memoria, che riguarda in particolare le informazioni apprese recentemente. I pazienti possono avere difficoltà a risolvere problemi anche semplici, a concentrarsi, a portare a termine un impegno, a seguire o partecipare a una conversazione. Possono dimenticare perché si trovino in un determinato luogo e come l’abbiano raggiunto. Si possono verificare alterazioni nella percezione del tempo, mancanza di cura della persona o di attenzione all’igiene, perdita di oggetti, abbandono dei passatempi preferiti e ritiro dal lavoro o dalle attività sociali. Si possono inoltre notare cambiamenti nell’umore e nella personalità dei soggetti affetti da Alzheimer, che appaiono confusi, sospettosi, ansiosi, timorosi, depressi; caratteristiche che si accentuano in posti non familiari. Tutto questo comporta risvolti importanti anche a carico delle persone deputate all’assistenza del paziente, sia da un punto di vista psicologico che fisico ed economico.
Attualmente non esistono farmaci per rallentare l’evoluzione dei processi neurodegenerativi. La tacrina è stato il primo medicinale approvato per il trattamento dell’Alzheimer che, sulla base di test specifici, si è rivelato in grado di determinare un modesto aumento delle capacità cognitive e mnemoniche. Deve però essere assunto quattro volte al giorno e l’impiego è accompagnato da nausea, dolori addominali e tossicità epatica. Si preferisce quindi utilizzare molecole più recenti, come donepezil, rivastigmina e galantamina: sebbene siano meno efficaci, contribuiscono comunque a migliorare la qualità di vita dei pazienti, senza effetti collaterali rilevanti come quelli associati alla tacrina. Nelle forme da moderate a gravi si usa di solito la memantina. Indipendentemente dalla predisposizione genetica, fondamentale è la prevenzione, che consiste in modificazioni nello stile di vita con un effetto protettivo nei confronti della patologia. La stimolazione mentale, l’esercizio fisico e una dieta varia ed equilibrata sono da proporre anche al paziente in cui la malattia sia già stata diagnosticata per ritardarne la progressione.